Racconto di un amore immortale

Estate 1898, quell’anno la bella stagione ritardava ad arrivare. I pomeriggi assolati venivano oscurati da temporali brevi ma intensi, lasciando la calura mitigata dal vento del maestrale, che al calar del sole perdeva la sua forza fino ai primi albori del mattino seguente, ripresentandosi di consueto; ondeggiando e increspando il mare con onde medie e lunghe che infrangevano gli scogli del lungomare di Mergellina.

In quel tempo Aldo, questo era il mio nome, ero un giovane studente, frequentavo la facoltà di lettere antiche, solevo fare lunghe passeggiate già di buon mattino, godendomi lo spettacolo marino che amavo infinitamente. Sovente gli spruzzi delle onde riuscivano a bagnare il mio viso e l’odore della salsedine che ne rimaneva era una goduria immensa che avvalorava i mie sogni di grande navigatore alla scoperta di terre lontane e amori impossibili.

Una di quelle mattine, mentre la mia mente traghettava in luoghi e tempi passati, fui rapito da uno sguardo volante ma penetrante, di una giovane donna, proprio come una saetta che a ciel sereno annuncia il temporale, all’incontro dei nostri occhi la donna prese il passo più velocemente. Continuai a camminare, come se fosse stato una breve parentesi in una frase, ma così non fu!

Quel giorno, più volte mi ritrovai a ripensarla, ma tranne quegli occhi che mi avevano abbagliato nulla di lei mi ritornava in mente.

Dunque, il domani l’avrei rivista ancor?

Fu il quesito di una lunga e torrida notte insonne. Avrei riconosciuto quello sguardo tra mille donne, e così fu il mattino seguente e ancora, ancora per tante altre. Ebbi modo così di conoscere la sua andatura, ritta e sicura sui suoi passi, il suo volto ovale coperto da lunghi capelli neri corvino e occhi grandi come due olive nere. Quegli sguardi furtivi, parlavano di noi segretamente, ancorati alla speranza di poter finalmente un giorno dichiarare il nostro amore liberamente, pur non conoscendo ancora i nostri nomi.
Dovevo trovare assolutamente una scusa per parlare con lei, e galeotto fu il carretto del venditore ambulante di gelati, che ogni mattina prendeva posto sul lungomare, anche se ormai eravamo già agli inizi di ottobre; mi avvicinai e si avvicinò chiedemmo un sorbetto entrambi e da gentiluomo qual’ero glielo offrii e lei accettò.

Tecla, finalmente conoscevo il suo nome!

Parlammo del più e del meno, col cuore che batteva così forte che entrambi ne avremmo sentiti i battiti se solo leggermente ci fossimo avvicinati.

Molto presto decidemmo di incontrarci nella villa Comunale, lontano dagli occhi indiscreti dei passanti, seduti sulla panchina, all’ombra degli alberi a raccontarci, i nostri corpi cercavano l’un l’altro, le mani si intrecciavano, i baci furtivi sfioravano le guance e lievemente toccavano le labbra infuocate.

Mi rivelò che era una donna infelicemente sposata con un tale di nome Bruno, che era stato l’amico d’infanzia a cui aveva riposto la sua fiducia, ma ingrato le aveva rubato il sogno d’amore, possedendola senza il suo consenso, nel modo più brutale che mai avesse potuto immaginare. Bruno, le giurava amore eterno e al vento lo gridava, volle sposarla a tutti i costi, minacciandola se così non fosse stato, di raccontare in giro di quanto era stata leggera la sua bellissima Tecla.

Il desiderio ardente di Bruno non era ricambiato da lei che in cuor suo serbava odio e rancore, ma il dovere coniugale le impediva di sottrarsi alle effusioni del suo sposo e quindi ne sottostava passivamente, tanto che lui la credeva gelida nel suo intimo, convinto però, che col tempo avrebbe imparato ad amarlo.
Le poche ore mattutine che riservavamo per i nostri incontri non ci bastavano più, lunga era l’attesa del giorno seguente, e saperla giacere accanto a Bruno, inerme, era per me una lancia che penetrava nel mio cuore.

Le proposi più volte di scappare via insieme per terre lontane, oltre cui nessuno avrebbe potuto cercarci e lì vivere liberamente il nostro grande amore. Ma sia la paura che la mancanza di forza le impedivano di agire, Tecla aveva bisogno di essere rassicurata ed io ero la spalla e la forza su cui adagiava tutte le sue angoscie.

Il nostro immenso amore che faceva di due un’unica persona, meritava sì, un gesto forte e deciso, e così, finalmente, programmammo il nostro addio alla nostra amata terra.

In una notte d’inverno, fredda e buia, col solo bagliore di una splendida luna piena che si rispecchiava nelle acque chete del golfo di Napoli, ci eravamo dati appuntamento al molo di Castel dell’Ovo, ove un barcaiolo, a cui avevo elargito una cospicua somma di denaro, ci attendeva per traghettarci lontano, il più lontano possibile.

Stretti in un unico immenso abbraccio ci allontanavamo dalla riva, giurandoci a gran voce, ancora una volta, eterno amore. Man mano il vogare di quell’uomo, che ci dava le spalle, avvolto in un lungo mantello, era sempre più forte, le acque incominciarono a penetrare nella barca, Tecla si stringeva ancora più a me cercando di non cadere, gli imploravamo di rallentare, ma invano, solo quando ormai stavamo per scivolare egli si voltò, era Bruno, Con volto e occhi di bestia infuriata, ci maledì e ci lasciò cadere in mare. Tre volte i nostri corpi avvinghiati tentarono di risalire, ma poi Tecla mi scivolò, ed io la segui negli abissi, il mio e il suo corpo ormai morenti si adagiarono l’uno sull’altro ed io ancora con un filo di lucidità vidi il corpo di Bruno scivolare giù, giù negli inferi della terra.

Si narra che ancora oggi, a distanza di secoli, due cuori innamorati, di un amore sano, non malato di gelosia e possessività, passeggiando per il lungomare di Mergellina in una sera di luna piena, potranno vedere in lontananza la barchetta fantasma con i due innamorati, Aldo e Tecla.

Angela Viola

Rivisitazione di un racconto di Matilde Serao

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