Colpevoli Silenzi

Gennaro aveva appena finito la sua ennesima, noiosa giornata di lavoro nel seminterrato della Fondazione, all’archivio, dove lo avevano relegato dopo trenta anni passati ai piani più alti.

Uscì che c’era ancora il sole. Prese a sinistra, un’eccezione nella routine che di solito lo spingeva a destra, per farsi inghiottire dallo sciame degli imenotteri urbani che lo avrebbe trascinato verso i vagoni della metropolitana.

Preferì, quella sera, percorrere lentamente le strade del centro storico alla ricerca di frammenti di memoria. Non ne trovò molti, e questo lo indispettì.

I discorsi dei giovani, i suoni, i colori, i punti d’incontro erano diversi da quelli del suo centro storico, tanto diversi da fargli dubitare di aver mai vissuto in quella città.

Scese verso il mare, ma si fermò prima di raggiungere la litoranea, riconoscendo, almeno, la birreria di tante serate con gli amici. Vi entrò e scelse un tavolo vicino alla vetrata, per guardare la strada, come allora. Ordinò una scura, per essere in sintonia con il suo umore.

Era da quella strada, in quella birreria, che gli era apparsa per la prima volta Angela, giovane matricola della sua facoltà che non aveva esitato a far amicizia con loro, più anziani, già prossimi alla laurea.

Gli era sembrata una Madonna di Filippo Lippi, l’attaccatura dei capelli alta, la fronte diafana, il volto appena colorito, lo sguardo sognante, la bocca piccola.

Contrastavano, con quell’immagine, i suoi accalorati discorsi sull’emancipazione femminile, ma era proprio quell’apparente contrasto a renderla ancor più attraente.

Anche la canzone che continuava a far andare nel jukebox non era, a prima vista, compatibile con i proclami rivoluzionari: cosa teneva insieme la voglia di rovesciare il sistema e quell’insistente ascolto di Frank Sinatra?

Ma sì, pensandoci bene: I’ve lived a life that’s full / I’ve traveled each and ev’ry highway / But more, much more than this / I did it my way

La sua scelta era chiara: in un modo o nell’altro avrebbe vissuto a modo suo e The Voice le ricordava l’impegno che aveva assunto con sé stessa.

Qualche settimana dopo avevano iniziato a vivere insieme e la loro storia era durata tre anni, la sognata rivoluzione sempre più lontana, l’orizzonte sempre più incerto.

Un giorno l’aveva trovata muta, pensierosa. Poi con tono freddo, tagliente:

-Avevi detto di esserci stato attento, e invece sono incinta; ma non preoccuparti, la risolvo io. Ho un medico amico. Rischio io, rischia lui, ma non c’è alternativa.

Gennaro avrebbe dovuto dire qualcosa. Non disse nulla.

Angela partì. Ritornò dopo una settimana. Gli raccontò lo strazio, mentale, ma sentito dentro come la più atroce delle violenze. Piangeva come mai aveva fatto. Poi s’irrigidì, gli occhi di ghiaccio: –Non hai fatto nulla per impedirmelo!

Una spiegazione, un chiarimento qualsiasi, anche soltanto un tentativo di esprimere comprensione avrebbero, forse, salvato il loro rapporto. Ma Gennaro non seppe trovare le parole adatte ad esprimere i suoi sentimenti, come se fosse improvvisamente regredito ad un’età infantile e preda di mutismo selettivo.

La loro storia non durò, e non poteva durare, ancora a lungo; ma fu un gran brutto lasciarsi.

Con questi ricordi che gli affollavano la mente Gennaro fece finalmente ritorno, quella sera, a casa. Sapeva bene che gli si erano riproposti proprio quel giorno perché non era un giorno normale, ma un momento molto particolare della sua vita: di lì a pochi minuti aveva un appuntamento telefonico con sua moglie Edda e sua figlia Alessandra. Lo avrebbero chiamato dalla clinica di Losanna, dove Alessandra si era trasferita anni prima per lavoro, subito dopo il parto programmato, per rassicurarlo che “tutto era andato bene”. Già, tutto bene, tutto normale: sua figlia madre, lui e Edda nonni.

La chiamata arrivò puntuale.

Tutto è andato a meraviglia, è una bellissima bambina; ti passo Alessandra

-Ciao, papà, anzi, nonno!

-Ciao, amore; sono felice per te… avete già deciso come la chiamerete?

-La chiameremo Angela, ti piace?

-È un bellissimo nome…

E Gennaro si abbandonò a un pianto, sommesso, per non farsi sentire.

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