Articolo inserito da Luigi Farina il giorno 04/02/2019 alle ore 18.48.57
...Eravamo giunti al ristorante, un locale rumoroso, affollato, come mi parve, di uomini del genere di Giacinti: viaggiatori di commercio, agenti di cambio, negozianti, industriali di passaggio. Giacinti entrò per primo e, consegnando il pastrano e il cappello al ragazzo, domandò: "Il mio solito tavolo è libero?"
"Si, signor Giacinti"
Era un tavolo nel vano di una finestra. Giacinti sedette stropicciandosi le mani, quindi domandò: "Sei una buona forchetta tu?"
"Credo di si", risposi impacciata.
"Bene, mi fa piacere ... voglio che a tavola si mangi ... Gisella, per esempio, non voleva mai mangiare...aveva paura d'ingrassare, diceva lei ... tutte sciocchezze: ogni cosa a suo tempo...a tavola si mangia".
Egli serbava un vero rancore contro Gisella.
"Ma è vero", dissi timidamente, "che a mangiar s'ingrassa ... e certe donne non vogliono ingrassare"
"Tu sei di quelle?"
"Io no... ma infatti dicono che sono troppo forte".
"Non dargli retta: tutta invidia...vai benissimo come sei, te lo dico io che me ne intendo". E come per rassicurarmi mi accarezzò paternamente la mano. Venne il cameriere e Giacinti gli disse: "Intanto via questi fiori: mi danno fastidio... e poi il solito... siamo intesi eh... e presto".
Quindi rivolto a me: "Mi conosce e sa quello che mi piace... lascia fare a lui... vedrai che non avrai di che lamentarti".
Non ebbi infatti di che lamentarmi. Tutti i piatti che si seguirono sulla nostra tavola furono ghiotti, se non proprio fini, e molto abbondanti. Giacinti mostrava un grande appetito e mangiava con una specie di enfasi, a testa bassa, impugnando solidamente coltello e forchetta, senza guardarmi né parlare, come se fosse stato solo. Egli era veramente assorbito dall'atto di mangiare e, nella sua avidità, perdeva persino quella sua calma tanto vantata, facendo nello stesso tempo più gesti, quasi avesse temuto di non fare a tempo e di rimanere digiuno. Si ficcava un pezzo di carne in bocca, correva con la mano sinistra a spezzare un morsello di pane, lo addentava, con l'altra mano si versava un bicchiere di vino e beveva prim'ancora d'aver finito di masticare. Tutto questo sbattendo le labbra, roteando le pupille e scuotendo ogni tanto il capo come fanno i gatti quando il boccone è troppo grosso. Io invece, contrariamente al mio solito, non avevo fame. Era la prima volta che mi accingevo a far l'amore con un uomo che non amavo e neppure conoscevo, e lo osservavo con attenzione, studiando i miei sentimenti e cercando di immaginarmi come me la sarei cavata...
Tratto da: "La Romana" di Alberto Moravia, edito da Bompiani 1965 (pp. 163-165).
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